Giorgio Sedona scrive così del film:
La crisi economica sta arrivando, ci dicono. Abbiamo appena preso lo stipendio mensile. La crisi sembra non toccarci. La mensilità si consuma alla svelta, molto più velocemente rispetto al tempo che ci separa dal prossimo stipendio. Cadiamo come “fiocchi di neve” tra la scorrevolezza dei giorni. Non riusciamo a realizzare le condizioni del nostro stato, respiriamo sempre meno ossigeno, ma non ce ne accorgiamo. La crisi economica sta arrivando, ci dicono. Ma lo dicono loro. Io, come me ne accorgo, l’ipossia, o meglio, la carenza d’ossigeno, comincia a manifestarsi. Apro la bocca, la spalanco, respiro affannosamente, ancora respiro quel poco che basta. Alla fine, tutta quell’aria mancante torna a lasciarsi respirare. Anche questo mese è finito. Sono sopravvissuto anche questa volta: ho preso il prossimo stipendio.
Giovanni Calamari con Debito di ossigeno (2009) ci presenta una quotidianità lacerata attraverso le vite parallele ma speculari di due famiglie – tra Torino e Milano, tra una coppia (con figlio) improvvisamente senza lavoro e una ragazza madre che il lavoro c’è l’ha sempre avuto solo per poco tempo – sull’orlo di una crisi (economica). La crisi è quella attuale, quella che ci presentano come un maestrale, un vento che prima o poi (?) investirà il nostro paese intanto al riparo non si sa per quale motivo. Padri e madri di famiglia in scadenza contrattuale o licenziati, figli da mantenere e mutui da estinguere. Il vento investirà, investe, loro – il film tutto vive di un connubio di attesa e attualità: pensato nel 2007, lontano dalla crisi vera e propria, girato tra il 2008 e il 2009, al manifestarsi di questa: addirittura Calamari ha letto della vita di Fulvia, la ragazza madre del film, su una petizione di Repubblica on-line riguardante proprio il precariato. Il giovane regista milanese continua nella sua particolare “forma” espressiva a manifestarci condizioni e sentimenti umani e d’umanità. Il suo sguardo questa volta si sofferma sull’universo dei “nuovi poveri”, quelli che non vogliono conoscere le conseguenze di un mancato pagamento di una rata del mutuo, quelli che potrebbero perdere la loro casa cosi come hanno perso la loro carriera nel licenziamento dalla loro azienda, oppure quelli che non si definiscono “liberi” perché incapaci di scegliere, perché la povertà, come recita una protagonista del documentario, non equivale solo all’impossibilità di comprare ma investe e preclude anche la libertà di scegliere un’altra possibilità.
Come riporta Calamari, Albert Camus diceva: “C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei restare fedele ad entrambi”. In questa frase troviamo la definizione di “forma” documentarista che Calamari usa per dare eco ai suoi personaggi. L’equazione è facile: la realtà, osservata con piglio indagatore e documentarista, è realtà che quotidianamente viviamo, la “visioniamo” senza immedesimarci in lei, in un certo senso la oltrepassiamo alla svelta. La forma evidenzia qualcosa dal reale e lo trasfigura in bellezza, in sentimento. È istante da dilatare, sul quale soffermarsi e sul quale riflettere. L’equazione coinvolge anche gli oppressi, difficile non trovarne, soprattutto se sono i “nuovi poveri” come in questo caso. Il risultato è un’emozionante documentario post-neorealista. Una ricostruzione, attraverso l’eleganza di un movimento di immagini, di una realtà tanto tangente alla nostra. E allora nella filmografia dei film apprezzati dal regista notiamo titoli come Roma città aperta o Accattone, e come non trovarli? Ricostruire e reinterpretare. Documentare fingendo. Qualcosa che si discosta dall’analisi analitica ed entomologica del reporter documentarista, qualcosa che non appartiene alla categoria dei documentari tout-court ma che strizza l’occhio al cinema della messa in scena nonostante non appartenga ad esso. Un documentario “difficile da distribuire” (cosi definito dallo stesso produttore del film). Precario.
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